
Eravamo soli in quel tratto di villa Pamphili. Lui un po’ curvo, con l’aria trasandata e vinto, io con l’aria più combattiva e con una macchina fotografica appesa al collo, non ancora vinta.
Con la stessa tristezza in corpo però.
Era seduto su una panchina e mi faceva pena. L’ho notato all’andata, ma non l’ho fotografato, sarebbe stato troppo irrispettoso.
Al ritorno dalla passeggiata me lo sono trovato davanti, se ne stava andando.
Appena mi ha superato mi sono voltata e ho scattato: me lo volevo portare a casa quel vecchietto, avevamo condiviso momenti di solitudine.
Inaspettatamente al tac della macchina fotografica il vecchietto si volta e altrettanto prontamente, come tutti quelli che devono nascondere una colpa, io cambio la mia postura, come se stessi fotografando l’infinito.
Tutto si è risolto, senza danni, nel giro di un attimo, ma la mia fantasia ha fatto il resto.
Quell’essere così inerme soverchiato dal peso degli anni, conservava dentro di se una baldanza e un orgoglio che non avevo considerato, perché la pena che avevo provato per lui, salvando me stessa dalla stessa pena, troppo difficile da gestire, mi aveva impedito di riconoscere quella forza e forse rispettarla.